laboratorio
Oltre
l'Antropocene?
I 17 collage che compongono la mostra sono il risultato di un laboratorio realizzato con gli studenti e le studentesse del corso in Sociologia della Cultura del Corso di Laurea in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali (a.a. 2022/2023).
A cura di Lorenza Villani e Valentina Cappi
Attraverso quelli che nella ricerca sociale vengono definiti “metodi creativi”, rappresentati in questo caso dalla tecnica del collage, abbiamo sperimentato concretamente l’approccio della produzione collettiva ai significati culturali.
Abbiamo cioè creato degli oggetti culturali a partire dall’esplorazione e ri-significazione di elementi ricorrenti nello spazio sociale.
Le opere esposte propongono al pubblico nuove cornici di senso attorno alla crisi eco-climatica, invitandolo ad osservare, con sguardo critico, la cultura dell’Antropocene.
Materiali di scarto o di riuso e frammenti di immagini e testi provenienti dalla produzione di massa hanno perso in questo processo il loro significato autonomo per acquisirne uno nuovo, esito di un processo di co-costruzione collettivo, che ci ha portati/e a scomporre, risignificare e ricombinare i frame che i media mainstream adottano nella narrazione dei cambiamenti climatici e della più ampia cultura dell’Antropocene.
Agli/alle studenti è stato chiesto di rispondere allo stesso invito che Cecilia Alemani, curatrice della 59a Biennale d’Arte di Venezia, ha rivolto ad artiste e artisti di tutto il mondo. Raccontando la relazione tra individui e tecnologie, i corpi e la Terra, artiste ed artisti si sono interrogate/i intorno alla domanda “Come sta cambiando la definizione di umano?”.
Nel nostro caso, la domanda che ha guidato l’esplorazione teorica e il processo artistico è stata più simile a “Che mondo viviamo?”, un’esortazione a mettere a fuoco le diverse forme di relazione che intratteniamo con l’ambiente del quale siamo parte e con tutti gli altri esseri che lo abitano e lo sorreggono. Un invito a visualizzare la cultura dell’Antropocene e i processi che l’hanno posta in essere e che continuano ad attraversarla e riprodurla. Un invito, anche, ad immaginare “possibili altrimenti”.
Nonostante le differenze fra i diversi collage, non è difficile individuare alcuni elementi comuni. Protagonista assoluto di tutte le opere è il dualismo, la spaccatura. Sia esso tra il passato e il futuro, tra devastazioni tecnologiche e una natura da proteggere, tra un drammatico futuro prossimo e lo spiraglio speranzoso di un cambiamento ancora possibile. I collage, popolati di umani e non-umani in diretta relazione fra loro, esibiscono altri oggetti e simboli ricorrenti: orologi, rifiuti, maschere antigas, leader politici mondiali, attivisti/e, veli e reti, industrie fossili. Tematizzando le relazioni tra cambiamenti di sistema, pratiche individuali, scelte politiche e azioni collettive, mettono in scena gli incubi, le crisi e le rivoluzioni della nostra epoca, nonché le disuguaglianze e le forme di sopraffazione che impediscono a tutti gli esseri di godere di un eguale diritto di respirare.
Le opere restituiscono infine alcune considerazioni: il clima è cambiato ma non ha ancora cambiato noi. Gli/le studenti si interrogano sulla propria libertà di scelta, sulla propria e altrui responsabilità e individuano nell’azione collettiva, in nuove politiche e in un approccio di cura ecologico ed ecosistemico alcune possibili vie per andare oltre l’Antropocene.
Creazione di Adamo
Matilde Anania, Leonardo Bech, Sara Borghi, Carlotta Cencic, Eleonora del Nero, Vittoria di Stefano
Partendo dalla celebre “Creazione di Adamo “di Michelangelo, l’opera vuole rappresentare il rapporto sempre più stretto tra uomo e tecnologia.
I due indici, uno robotico ed uno umano, quasi si toccano così da definire un incontro tra due mondi ormai difficili da scindere l’uno dall’altro.
Il mondo della tecnologia e quello dell’essere umano non sono mai stati così in sinergia, tanto che sarebbe impossibile immaginare la nostra vita senza l’ausilio dello sviluppo tecnologico.
Eppure, siamo consapevoli anche delle tante conseguenze negative che scaturiscono dall’introduzione del “disumano” nelle nostre vite quotidiane.
L’opera rappresenta dunque ciò che questi due mondi, apparentemente tanto lontani, ma che in realtà ai giorni d’oggi non potrebbero esistere l’uno senza l’altro, possono generare: da un lato il progresso e lo sviluppo tecnologico che ha permesso all’umanità di raggiungere considerevoli incrementi nel proprio stile di vita attraverso le innovazioni tecnologiche, che ci permettono una connessione diretta e istantanea con tutto il resto del mondo; dall’altro lato hanno determinato il mutamento dell’equilibrio naturale e della realtà circostante, i cui effetti spesso possono essere irreparabili e indelebili.
Come sopravvivere?
Martina Bianco, Agata Burgio, Ludovica Carrasi, Maria Comparini, Helena Di Paolo, Alexia Dinescu, Michela Dolci
L’opera evoca il sentimento di paura che prevale quando ci si accinge a pensare a un tema così ampio, grave e complesso come il cambiamento climatico e mira a mettere in evidenza come questa paura porti a un conseguente meccanismo che fa percepire il problema come secondario, portando ad ignorarlo.
I colori sono accesi, simbolici, espressivi: il giallo dello sfondo simboleggia la possibilità di trovare ancora una soluzione mentre il rosso, colore predominante comunemente associato al pericolo e all’allerta, è un invito a fermarsi, a riflettere e a smettere di ignorare.
Il protagonista dell’opera è l’uomo, spettatore attraverso gli infiniti mezzi comunicativi di cui dispone, ma parallelamente senza occhi, cieco. L’uomo vede quasi ciò che vuole vedere, cerca soluzioni utopiche, lontane, per sopperire alla paura da cui sarebbe pervaso se aprisse gli occhi sulla sua terra.
L’opera vuole trasmettere l’enorme quantità di catastrofi a cui la Terra sta assistendo, non solo a livello ambientale ma anche sociale; si crea quindi un parallelismo tra la speranza di poter fuggire da queste ultime ignorandole e l’intenzione di fare qualcosa di concreto, di fermarsi e prendere coscienza.
L’umano a causa della pandemia, dei cambiamenti climatici e delle varie catastrofi che succedono nel mondo diventa più dipendente dal non umano affidandosi sempre di più alla tecnologia per la propria sopravvivenza. Ad esempio, la poca speranza che, inconsciamente, abbiamo nel futuro porta a concentrarci su un futuro utopico come quello di trasferirci su un altro pianeta (in questo caso Marte) piuttosto che accogliere davvero i cambiamenti radicali.
L’opera vuole evocare un senso di speranza in chi la osserva invitando a riflettere su come l’ignorare il problema anche attraverso soluzioni utopiche non possa essere una soluzione.
L’opera è un invito a cambiare il sistema, ad aprire gli occhi su ciò che accade qui e ora.
Dov’è finita la speranza?
Giulia Agugiaro, Ludovica Albano, Thomas Baldiserra, Clara Carrera, Edoardo Cavazzuti, Simone Egitto
L’opera evoca un senso di inquietudine che scaturisce dal sentimento di angoscia di chi l’ha realizzata; immagini di cataclismi sono affiancate ad immagini dalla forte connotazione politica e sociale ad evidenziare la forte interdipendenza tra le scelte del corpo politico e le loro conseguenze planetarie. Nella parte sinistra dell’opera, però, le immagini filtrate attraverso la pellicola verde evocano un sentimento di speranza e fiducia a comunicare che il cambiamento climatico può costituire una risorsa per una rivoluzione delle vite. La sveglia con la scritta Ascoltami posta in primo piano insieme allo zucchero di canna – a simboleggiare la sabbia della clessidra – sono lì a ricordare che il tempo a disposizione non è molto e che è giunto il tempo di ridisegnare il futuro.
Nella parte destra, i colori sono prevalentemente cupi, a trasmettere un sentimento di tristezza e angoscia: il rosso con su scritto “hate speech” invita chi osserva a riflettere sull’interconnessione tra i discorsi di odio e le politiche intraprese sul piano ambientale; il verde scuro simboleggia il petrolio, a ricordare la dipendenza dal fossile; la rete metallica posta sulla Venere denuncia la privazione della libertà di una sempre più consistente parte della popolazione. La parte sinistra invece è vivida e accesa a ricordare che si è ancora in tempo di agire e a suggerire un sentimento di speranza.
L’opera ha una forte connotazione politica e richiama l’attenzione sull’inestricabile relazione tra il locale e il globale invitando chi la osserva alla responsabilità e alla presa di coscienza riguardo all’umanità e alla natura che ci avvolge.
Chi guarda è chiamat* a scrivere su un foglietto una parola o una frase suscitata dal collage, per poi inserirla all’interno del contenitore verde trasparente, a rappresentare la continuità e l’interdipendenza tra le nostre azioni quotidiane e i loro effetti sul futuro.
E dovrei sentirmi in colpa per questo?
Carlotta Arcostanzo, Valentina Ciardullo, Giulia Ciotti, Giulia De Matteis, Edith Ezukuse
L’idea dell’opera scaturisce dalla necessità di rappresentare la tendenza umana ad accusare il prossimo, puntando il dito verso istituzioni e altri soggetti del contesto pubblico. Data l’irrappresentabilità del cambiamento climatico e dei suoi effetti, gli individui in società spesso nascondono le responsabilità individuali dietro la scusa che alla base vi sia uno “stile di vita condiviso”.
È attraverso l’istinto di sopravvivenza che il singolo riesce ad ignorare minacce costanti e incombenti, cercando così un rifugio dal senso di colpa che lentamente lo logora. In virtù di ciò, il fenomeno del cambiamento climatico sembra ancora remoto, fa sentire impotenti e mette a repentaglio l’identità e le sicurezze di ognuno.
L’opera è stata realizzata attraverso immagini e colori che evocano un senso di sfiducia, sconforto e malinconia. Il soggetto principale dell’opera risulta essere il caos in tutte le sue forme, partendo dall’ambiente, passando per la politica fino ad arrivare all’industria, la scomparsa di habitat naturali e l’estinzione di specie animali, l’urbanizzazione, la deforestazione, l’inquinamento dei mari, l’accumulo di rifiuti, lo scioglimento dei ghiacci, i conflitti e le guerre civili e, infine, le crisi sanitarie.
Il globale e il locale si intersecano nell’opera a sottolineare la loro inestricabile interdipendenza.
L’opera coinvolge chi la osserva attraverso l’immedesimazione e la sollecitazione di un senso di colpa dato dall’essere allo stesso tempo responsabile e indifferente.
I polmoni della Terra
Carlotta Arcostanzo, Valentina Ciardullo, Giulia Ciotti, Giulia De Matteis, Edith Ezukuse
L’idea dell’opera scaturisce dalla necessità di rappresentare la tendenza umana ad accusare il prossimo, puntando il dito verso istituzioni e altri soggetti del contesto pubblico. Data l’irrappresentabilità del cambiamento climatico e dei suoi effetti, gli individui in società spesso nascondono le responsabilità individuali dietro la scusa che alla base vi sia uno “stile di vita condiviso”.
È attraverso l’istinto di sopravvivenza che il singolo riesce ad ignorare minacce costanti e incombenti, cercando così un rifugio dal senso di colpa che lentamente lo logora. In virtù di ciò, il fenomeno del cambiamento climatico sembra ancora remoto, fa sentire impotenti e mette a repentaglio l’identità e le sicurezze di ognuno.
L’opera è stata realizzata attraverso immagini e colori che evocano un senso di sfiducia, sconforto e malinconia. Il soggetto principale dell’opera risulta essere il caos in tutte le sue forme, partendo dall’ambiente, passando per la politica fino ad arrivare all’industria, la scomparsa di habitat naturali e l’estinzione di specie animali, l’urbanizzazione, la deforestazione, l’inquinamento dei mari, l’accumulo di rifiuti, lo scioglimento dei ghiacci, i conflitti e le guerre civili e, infine, le crisi sanitarie.
Il globale e il locale si intersecano nell’opera a sottolineare la loro inestricabile interdipendenza.
L’opera coinvolge chi la osserva attraverso l’immedesimazione e la sollecitazione di un senso di colpa dato dall’essere allo stesso tempo responsabile e indifferente.
Inquinanti dell’era
Emma Bellan, Federico Blanco, Andrea Carbotti, Ilenia Crivaro, Dalila De Simone
L’opera evoca emozioni contrastanti: da un lato la rabbia, la frustrazione e la disperazione; dal lato opposto la speranza, la spensieratezza e l’ottimismo. I materiali e i colori utilizzati pongono l’attenzione sul contrasto di queste emozioni e vogliono trasmettere i lati positivi e negativi, in maggioranza, del mondo di cui facciamo parte.
Il protagonista dell’opera è l’uomo, in quanto carnefice e vittima dei problemi che lo affliggono, ma anche fiducioso del fatto che arrivi un futuro migliore.
Il rapporto tra l’umano e il non-umano è conflittuale, perché l’uomo cerca sempre di migliorarsi e di applicare al meglio le innovazioni, ma queste ultime si riversano contro di lui. All’interno dell’opera vengono messe in evidenza le conseguenze disastrose delle decisioni sbagliate dell’uomo: rivolte, inquinamento, disastri naturali ed estinzione di animali. L’opera coinvolge emotivamente chi la osserva attraverso le sue immagini che concretizzano l’atteggiamento incoerente e controproducente dell’uomo.
La fabbrica dell’infelicità
Chiara Andreazza, Lucia Ciolino, Ilaria Curti, Alice Diblio
La fabbrica dell’infelicità nasce prendendo spunto dall’opera The First Baby di Jago.
La scultura, raffigurante un feto, è stata realizzata nel 2019 e poi portata sulla Stazione Spaziale Internazionale dal Comandante Luca Parmitano. L’opera è stata lì immortalata in uno scatto iconico, che ha come sfondo la Terra.
The First Baby è il “simbolo di una generazione nuova che nasce e respira nel futuro, spaventoso, vasto e ignoto come le galassie che compongono l’universo” così dichiara l’autore.
Proprio la tematica delle nuove generazioni è diventata il fulcro del nostro progetto: il feto diventa per noi simbolo di speranza. I giovani sono sempre più consapevoli del cambiamento climatico e del proprio ruolo all’interno del sistema organico della natura. Le generazioni passate hanno vissuto in un sistema antropocentrico che le ha portate, e le porta oggi, a pensare di poter superare ogni limite naturale. Convinzione che è responsabile dello sviluppo industriale per come lo conosciamo, con tutte le sue storture: emissioni di CO2, sfruttamento delle risorse in maniera non equa, inquinamento, accumulo di rifiuti, estrazione di combustibili fossili, ecc.
Evoluzione che ha portato a superare anche il limite terrestre, e lo scatto dalla stazione spaziale ne è un emblema. Nell’immagine, la piccolezza del feto di fronte alla Terra ci porta a ridimensionare il nostro rapporto con l’ambiente in cui viviamo. Ambiente che abbiamo reso inospitale e con cui sarebbe necessario riconciliarsi. L’uomo non dovrebbe più sopraffare e controllare la natura ma considerare la sua agentività e quella di tutte le parti che la compongono.
Abbiamo quindi deciso di rappresentare il pianeta come insieme degli aspetti dell’odierna vita umana sulla Terra e dei suoi possibili risvolti negativi e positivi. Il sistema socio-economico nel quale siamo immersi, che condiziona il nostro desiderio di controllo, ci condanna all’infelicità. L’unico spazio di azione che rimane per guarire è prendersi cura. Di noi, degli spazi che abitiamo e delle specie che li abitano con noi. D’altronde, abbiamo ancora tempo.
La permeabilità del male
Filippo Accetta, Giulia Bergamini, Maya Berti, Emanuele Bianchi, Matthieu Chiagano, Ilaria del Grande
A partire da sentimenti di angoscia e paura, l’opera è realizzata su due piani: sullo sfondo abbiamo una prevalenza di colori cupi, che rimandano alla tristezza della situazione in cui ci si trova oggigiorno, mentre in primo piano è presente una figura umana caratterizzata da colori più accesi, colori vibranti che la esaltano e la indicano come punto fondamentale.
Protagonista dell’opera è la figura umana al centro della quale la scritta “ottimismo” sta simboleggiare la sua centralità per il cambiamento e per il miglioramento delle condizioni.
Le parole che costellano l’opera rappresentano il registro catastrofico attraverso cui i cambiamenti climatici vengono raccontati: disastri ambientali, siccità, omicidio tecnologico, sete e distanze sociali.
La figura umana è internamente costituita da elementi e s-oggetti non umani, al suo esterno invece è rappresentato il disumano, distruttivo della natura e dell’ambiente.
Il mozzicone di sigaretta posto sul lato inferiore emana un forte odore di fumo a simboleggiare gli aspetti negativi della società odierna e si contrappone alla figura umana che invece rappresenta l’ottimismo verso il futuro e la prospettiva di miglioramento.
La realtà del mondo
Alessia Achilli , Salma Alaoui, Gabriele Bartolucci, Lisa Maria Beretta, Chiara Chicconi, Alex Corsi
L’opera utilizza il mondo dei social per veicolare in modo diretto e veloce il messaggio. Be Real è un social che si è rapidamente diffuso in tutto il mondo nel 2022: una volta al giorno una notifica ricorda a tutti gli utenti che dovranno scattare una foto, sia con la telecamera interna che con quella esterna, per poi condividerla con amici. Per la pubblicazione si hanno 2 minuti di tempo ma nel caso in cui si pubblichi in ritardo, Be Real mostrerà a tutti gli utenti il ritardo fatto.
I colori e le immagini utilizzate seguono la logica del social e la rappresentazione che esso veicola del mondo: nel quadrante che ritrae la fotocamera esterna vengono inquadrate industrie, incendi e mari pieni di spazzatura; mentre quello che mostra la telecamera interna presenta un orso polare, ovvero l’utente che ha scattato la fotografia da pubblicare.
Ad evocare sentimenti di rabbia, paura e disorientamento vi sono i paesaggi devastati dall’azione umana catturati dall’orso polare con incluse le reazioni degli “amici” sul social. L’emergenza climatica, rappresentata attraverso l’utilizzo del rosso e del nero, è affiancata dalla scritta “not too late” posizionata sotto il nome dell’utente, dove all’interno del social sarebbe posta la segnalazione del ritardo della pubblicazione su Be Real, a simboleggiare la speranza nel futuro e la voglia di cambiamento.
I due lati della fotocamera rappresentano il rapporto tra l’umano e il non-umano, da un lato le fabbriche e l’inquinamento, dall’altro gli animali e il regno vegetale. La raffigurazione del social media all’interno dell’opera interseca la località e la globalità dell’azione e degli sguardi.
Life on Mars
Alice Barnabè, Sara Basso, Francesca Bozzi, Aurora Budano, Giorgia Della Maestra
L’opera, ispirata a Life on Mars di David Bowie, sollecita una riflessione sulle possibili condizioni per la nascita e lo sviluppo della vita umana su altri pianeti e sul senso di immaginare una vita altrove quando è ancora possibile preservarla sul pianeta Terra.
L’opera evoca da un lato un sentimento di speranza per il futuro e di fiducia nel progresso scientifico-tecnologico e dall’altro un senso di consapevolezza riguardo ai danni causati dallo sfruttamento da parte dell’uomo delle risorse terrestri.
A sollecitare queste emozioni vi sono gli odori delle spezie e delle erbe: la menta, posta su Marte, rimanda alla freschezza e alla speranza di una nuova vita cui si contrappongono il peperoncino e il curry che con il loro odore caldo e avvolgente rimandano al surriscaldamento dell’atmosfera.
Protagonisti dell’opera sono da un lato i pianeti, la Terra e Marte, la prima come luogo dove riporre sempre meno speranze, il secondo come paradiso idealizzato, dall’altro gli attivisti e le attiviste che quotidianamente si fanno carico di portare l’attenzione sull’importanza di preservare la vita umana e gli ecosistemi sul pianeta.
Noi siamo il diluvio e Noi siamo l’arca
Lorenzo Aiello, Nicolò Andreazza, Francesco Baldini, Leonardo Bellucci, Gabriele Cerrato, Leonardo Conti
Nell’opera è rappresentata, in primo piano, una rivisitazione della “Pietà” di Michelangelo. All’interno della figura della Madonna troviamo immagini che ripercorrono gli sviluppi del capitalismo, dalle fabbriche alle banche, dalle industrie alle odierne multinazionali. Il corpo di Cristo simboleggia, invece, le conseguenze che questo sistema di produzione ha portato nel mondo occidentale (parte superiore del corpo) e nel Quarto mondo (parte inferiore del corpo). Da una parte sono raffigurati il benessere, la ricchezza, la prosperità e l’agiatezza che annebbiano parte dell’umanità illudendola di essere esente da responsabilità per la povertà, la miseria e lo stento che assediano una grandissima parte del Pianeta. Il velo bianco divisorio rappresenta una cortina trasparente che impedisce di vedere solo a chi non vuole guardare. La figura è rialzata in quanto, per lunghissimo tempo, quei paesi e quelle classi sociali maggiormente responsabili del cambiamento climatico hanno sottovalutato le ripercussioni del loro comportamento, arrivando, forse, a prenderne coscienza solo di fronte a fenomeni eclatanti e sensazionalistici che rivelano l’agentività della natura. Lo sfondo, dunque, nella parte inferiore raffigura gli effetti indiretti dello stile di vita occidentale e del sistema di produzione capitalistico sull’ambiente e sull’intero Pianeta; nella parte superiore, invece, vi sono immagini che richiamano un ritorno ad un rapporto simbiotico tra uomo e natura, in cui l’uomo non si trova al centro ma a pari livello con l’ambiente rimandando allegoricamente all’ Antropocene. Il Cristo sofferente rappresenta il rapporto tra locale e globale, poiché se è chiaro chi tragga vantaggio e chi no, a livello locale, dalla continua evoluzione del capitalismo, è altresì indiscutibile la globale situazione di sofferenza e bisogno che attanaglia tutta la società; la Madonna raffigura ciò che ha generato e causato tale situazione e ciò che potrebbe costituire la soluzione, perché “Noi siamo il diluvio e Noi siamo l’arca”.
Prepararsi all’impatto
Giulia Bagattini, Chiara Brizzi, Margherita Bruttini, Gabriel Castano, Emilia Del Campo
L’opera rappresenta il sistema complesso di conseguenze legate al progresso tecnologico. In questa fitta rete, hanno fino ad ora prevalso narrazioni che rendono l’individuo contemporaneamente colpevole e pietrificato di fronte all’enormità delle trasformazioni, impossibilitato ad agire e a produrre un cambiamento. Di fronte a ciò, viene ridefinito il ruolo individuale e proposta una narrazione alternativa.
La rete grigia, che occulta parzialmente immagini di catastrofi, conflitti e disuguaglianze esacerbate, non rimuove completamente il paradigma emergenziale/apocalittico dalla narrazione collettiva – quindi non vuole negare le conseguenze concrete di un uso irresponsabile del progresso tecnologico che avviene a discapito della vita umana e non umana – ma piuttosto invita a concentrarsi sulla necessità di agire e pensare non come individuo, ma come comunità.
Protagoniste dell’opera sono infatti proprio le mani, centrali e colorate su uno sfondo grigio, e molteplici, per sottolineare l’importanza di un agire consapevolmente collettivo. Queste mani abbandonano l’individualismo autocelebrativo del ventunesimo secolo e si riconoscono parte di un insieme globale, da tutelare e privilegiare al di sopra di qualunque altro obiettivo.
Tra gli elementi non occultati dalla rete figura anche l’immagine di un pannello fotovoltaico; questa scelta nasce dalla volontà di privare la tecnologia di una connotazione negativa o positiva che sia – infatti troviamo altri esempi di tecnologie moderne anche sotto la rete – e di presentarla piuttosto come uno strumento che può essere impugnato da mani più o meno consapevoli.
Agli/alle studenti è stato chiesto di rispondere allo stesso invito che Cecilia Alemani, curatrice della 59a Biennale d’Arte di Venezia, ha rivolto ad artiste e artisti di tutto il mondo. Raccontando la relazione tra individui e tecnologie, i corpi e la Terra, artiste ed artisti si sono interrogate/i intorno alla domanda “Come sta cambiando la definizione di umano?”.
Nel nostro caso, la domanda che ha guidato l’esplorazione teorica e il processo artistico è stata più simile a “Che mondo viviamo?”, un’esortazione a mettere a fuoco le diverse forme di relazione che intratteniamo con l’ambiente del quale siamo parte e con tutti gli altri esseri che lo abitano e lo sorreggono. Un invito a visualizzare la cultura dell’Antropocene e i processi che l’hanno posta in essere e che continuano ad attraversarla e riprodurla. Un invito, anche, ad immaginare “possibili altrimenti”.
Qui finisce il mondo
Alice Arnaldi, Anna Bertocci, Martina Bergamini, Lisa Del Magno, Francesco Manuel Carlo Dettori, Michele Domenicucci
L’opera evoca sentimenti contrapposti di angoscia e speranza. Angoscia per la situazione in cui il Pianeta si trova, sempre più spesso dipinto come sull’orlo del collasso, in un circolo vizioso che riprende l’idea di catastrofe irreparabile; speranza, invece, per quel poco di fiducia che continua a sopravvivere nei nostri pensieri.
L’opera vuole riportare la percezione di una generazione che forse più di ogni altra è influenzata dai messaggi dei media, dalla televisione ai social, che insistono martellanti sul frame emergenziale e pessimistico e che di certo non trasmettono tranquillità per l’avvenire.
L’intero collage, dunque, si spacca in due parti: la metà di sinistra riferita al passato richiama l’emozione dell’angoscia, della tensione, dell’inquietudine ed è rappresentata dal vulcano in eruzione, dalla macchina (simbolo dell’inquinamento), dalla benzina Shell. La seconda metà, invece, riprende il presente, come testimonia la raffigurazione dell’ex presidente statunitense Trump mentre bacia il premier britannico Johnson. Frase fondante della prima metà è “Qui finisce il mondo, gridatelo se occorre…” a sottolineare ulteriormente la sensazione di angoscia, mentre quella della seconda metà è “e se il passato e il futuro si potessero incontrare?”. La metà riguardante il presente è più nascosta, meno percettibile ad un primo sguardo: sebbene la speranza verso il futuro sia ancora viva, rimane estremamente difficile da cogliere, occultata da messaggi pessimistici che avvolgono la nostra società.
Il messaggio di speranza si interseca con immagini catastrofiche ad evidenziare le ricadute delle scelte scellerate e prive di lungimiranza del passato sull’uso di risorse naturali; scelte di cui chi osserva deve pagare le conseguenze. Il vulcano posto sulla sinistra ristabilisce gli assetti ribaltando la presunzione dell’uomo di avere controllo sulla natura, mentre questa non si piega alle azioni umane.
L’opera è un invito alla complessa ricerca di speranza.
Siamo davvero liberi di scegliere?
Veronica Babini, Sofia Bonzagni, Virginia Cibeo, Chiara Colucci
La sempre maggiore pervasività della tecnologia nella nostra vita fa scaturire in noi sensazioni opposte: ottimismo e paura. Da un lato il futuro sembra un mondo di possibilità e speranza. Speranza che la tecnologia possa proteggere il nostro pianeta aiutando a conservare deserti, montagne e foreste. Dall’altro essa è disumanizzante, causa di distruzioni e rabbia. Il futuro incombe su di noi come lava di un vulcano, che non siamo sicuri di riuscire a domare. Nell’opera il futuro ricco di speranza è rappresentato da immagini di un bambino che gioca con una tartaruga, montagne innevate e foreste rigogliose. La sfera tenuta in una mano in basso a sinistra esprime la sensazione di controllo che la tecnologia dà del futuro, e la macchina rappresenta il progresso nella sua accezione estetica e utile. Il futuro nefasto è invece rappresentato da immagini di guerra, la tartaruga che si trovava accanto al bambino nella parte sinistra dell’opera è ora sostituita da un soldato, le immagini paesaggistiche scompaiono in una nuvola di fumo. Un virus si trova all’estremità destra del collage, sotto ad un bambino con una mascherina. Ambo le immagini alludono alla pandemia del Covid 19, che ha aggravato le sensazioni come la paura e l’isolamento.
Nell’opera sono rappresentate due parti del mondo, quella “più serena” caratterizzata dal colore blu, dal cielo stellato sullo sfondo e da paesaggi spettacolari e dalla scritta la sorprendente forza del tempo. Dall’altra parte il rosso, colore simbolo di rabbia e delusione di un mondo ancora troppo diviso.
L’opera si compone di una molteplicità di centri che attirano il focus di chi osserva, sollecitando a trovare significati diversi nascosti dietro ad ogni immagine e ad ogni scritta. Così come nella vita ogni giorno siamo chiamati a vivere attraverso le diverse interpretazioni che diamo al mondo.
Sosteniamo il futuro
Edoardo Aulicino, Viola Balaj, Lorenzo Barchesi, Lorenzo Bertuccioli, Anna Bonazza, Sofia Esposito
L’opera rappresenta il dualismo tra l’umano e il non-umano, tra un senso di alienazione e uno di appartenenza al mondo che li circonda.
L’utilizzo di colori antitetici vuole trasmettere quanto il progressivo allontanamento dalla natura ci stia rinchiudendo in una “gabbia” che noi stessi creiamo. Solo attraverso un cambiamento radicale del modo di intendere ciò che ci circonda saremo in grado di abbandonare questa gabbia e conoscere le bellezze del Pianeta facendole sbocciare come l’albero che si erge dietro il cupo paesaggio in primo piano.
SunScreen
Edoardo Alfano, Denise Arri, Sofia Barilari, Michela Di Campli, Francesco Collovà, Siria Comisso, Andrea De Luca, Michela Di Campli
Nel 1922, il poeta britannico T.S. Elliot offrì ai suoi contemporanei un’immagine agghiacciante di una terra devastata all’interno del suo capolavoro The Wasteland:
“Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo”
È da questo cumulo di immagini infrante della natura e dalle macerie di pietra che sovrastano e opprimono la natura che l’opera è stata realizzata. L’opera evoca un sentimento di confusione e disorientamento: nel caos del mondo moderno, immersi tra tragedie più o meno recenti, e soggetti a una incredibile quantità di stimoli, è sempre più difficile distinguere il vero dal falso. L’informazione relativa al cambiamento climatico è una selva molto ardua: l’opera si fa portavoce di questa complessità unendo frammenti di diversa provenienza, estrapolandoli dal loro contesto originale e ponendoli all’interno di una pagina Instagram. Le storie in alto ci mostrano una serie di fonti di informazione poco attendibili unite a immagini scioccanti e provocatorie, volte a inquadrare il cambiamento climatico in un frame spietatamente catastrofista. A ciò si oppone il grande post al centro, che cerca di convogliare l’attenzione unendo il sensazionalismo allo scientifico. Le immagini che dovrebbero catturare l’attenzione dei disattenti sono ricoperte di titoli di articoli informativi e ricerche scientifiche, che fanno emergere il vero protagonista dell’opera: il dibattito sul cambiamento climatico e la discordanza di posizioni. Il rapporto tra la realtà e l’individuo è irrimediabilmente filtrato, ma all’individuo, capace di realizzare la “sua storia”, rimane la capacità di scegliere e di essere protagonista attivo e consapevole. L’utente e la sua conoscenza sono limitati a un cumulo di immagini infrante, dalle quali sembra non possa nascere nulla. L’opera vuole dunque dare nuova vita a quei frammenti visuali, nella speranza che ci sia di più oltre l’albero morto e lo stridere del grillo.
Time to change
Gabriella Agyei, Flavia Basagni , Giorgia Boroni, Giulia Bottalico, Giorgia Cancellara, Paola Del Piccolo
L’opera rappresenta il cambiamento climatico attraverso due prospettive simbolicamente situate nella parte superiore e inferiore del foglio. Le due sono unite al centro da un globo il cui emisfero australe, a forma di orologio, rappresenta l’aspetto più catastrofico e caotico dei cambiamenti climatici: l’inquinamento, il capitalismo, le catastrofi naturali e le migrazioni forzate. Il lato superiore simboleggia invece la speranza e ha come protagoniste le nuove generazioni che si mobilitano attivamente richiamando l’attenzione dei governi (che devono agire) sollecitando un risveglio delle coscienze della popolazione che ancora sminuisce il problema. Il lato superiore è dunque dedicato alle soluzioni alternative, alla sostenibilità e alla riconnessione dell’uomo con la natura riconoscendone l’agency.
Attraverso l’opera vengono suscitati sentimenti ambivalenti, da un lato la drammaticità della condizione attuale e dei danni che l’umanità ha inflitto alla Terra, dall’altro la speranza per il futuro e la volontà di ricordare alle persone che sebbene sia poco, abbiamo ancora tempo per agire.
I materiali e i colori utilizzati rappresentano questi sentimenti, nella parte superiore insieme al verde, il blu e il bianco a sollecitare un senso di calma sono state utilizzate delle spezie che rimandano all’importanza del Km 0. Nella parte inferiore i colori cupi sono enfatizzati da immagini di scenari di guerra, inquinamento, distruzione e industrie e dall’utilizzo di materiali in plastica a ricordare che è necessario invertire la rotta. Chi osserva è invitat* a entrare in contatto con l’opera toccandola e annusandola, in particolare lo spago sfilacciato posto tra i due emisferi simboleggia la tensione: il tempo è poco e il filo sta per spezzarsi, è il momento di decidere.
A cura di Paola Parmiggiani, Valentina Cappi, Lorenza Villani, Giulia Agugiaro, Gioia Archetti, Giulia Bagattini, Thomas Baldiserra, Veronica Marleen Ballhaus, Emma Bellan, Lisa Maria Beretta, Anna Bertocci, Margherita Bruttini, Gabriel Castano, Lucia Ciolino.
con le opere realizzate da
Ahmed Aabid, Filippo Accetta, Alessia Achilli, Gabriella Agyei, Giulia Agugiaro, Lorenzo Aiello, Salma Alaoui, Ludovica Albano, Alessia Alberghini, Edoardo Alfano, Matilde Anania, Chiara Andreazza, Nicolò Andreazza, Gioia Archetti, Carlotta Arcostanzo, Alice Arnaldi, Denise Arri, Edoardo Aulicino, Veronica Babini, Giulia Bagattini, Viola Balaj, Francesco Baldini, Thomas Baldiserra, Veronica Ballhaus, Lorenzo Barchesi, Sofia Barilari, Alice Barnabè, Gabriele Bartolucci, Flavia Basagni, Sara Basso, Leonardo Bech, Emma Bellan, Leonardo Bellucci, Giulia Bergamini, Lisa Maria Beretta, Martina Bergamini, Maya Berti, Anna Bertocci, Lorenzo Bertuccioli, Emanuele Bianchi, Martina Bianco, Federico Blanco, Anna Bonazza, Sofia Bonzagni, Sara Borghi, Giorgia Boroni, Giulia Bottalico, Sofia Bottazzi, Francesca Bozzi, Chiara Brizzi, Margherita Bruttini, Agata Burgio, Aurora Budano, Giorgia Cancellara, Andrea Carbotti, Alessandro Canova, Ludovica Carrasi, Clara Carrera, Gabriel Castano, Edoardo Cavazzuti, Carlotta Cencic, Gabriele Cerrato, Matthieu Chiagano, Chiara Chicconi, Virginia Cibeo, Valentina Ciardullo, Lucia Ciolino, Lorenzo Cioni, Giulia Ciotti, Francesco Collovà, Chiara Colucci, Siria Comisso, Maria Comparini, Leonardo Conti, Alex Corsi, Ilenia Crivaro, Ilaria Curti, Andrea De Luca, Ilaria del Grande, Giulia De Matteis, Emilia Del Campo, Alessia De Luca, Dalila De Simone, Lisa Del Magno, Eleonora del Nero, Paola Del Piccolo, Giorgia Della Maestra, Francesco Manuel Carlo Dettori, Michela Di Campli, Helena Di Paolo, Vittoria di Stefano Alice Diblio, Alexia Dinescu, Michela Dolci, Michele Domenicucci, Simone Egitto, Sofia Esposito, Edith Ezukuse.
Progetto promosso dal Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia (Università di Bologna)